Yesterday's Papers: Costruire o distruggere, il futuro della sicurezza globale di Michela Arricale.



Edizione del 17 marzo 2025
(a seguire GR100 a cura di Radio100Passi)

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 COSTRUIRE O DISTRUGGERE – IL FUTURO DELLA SICUREZZA GLOBALE

La sicurezza è uno dei termini più abusati del nostro tempo. È la chiave di ogni strategia politica, il pretesto per ogni guerra, il mantra ripetuto in ogni summit internazionale. Ma sicurezza per chi? E soprattutto, chi decide cosa significa sicurezza? Per decenni, la narrazione occidentale ha imposto un’idea ben precisa: la sicurezza è la protezione di uno spazio delimitato, di una comunità ristretta. È una fortezza con dentro i privilegiati e fuori il caos. È la NATO, l’Unione Europea, gli Stati Uniti che determinano chi è sicuro e chi no. È l’esclusione dei poveri, delle nazioni ribelli, di chiunque metta in discussione l’ordine imposto. Ma questo ordine sta crollando, e il concetto stesso di sicurezza è diventato un campo di battaglia.

La sicurezza, nel senso vero della parola, non è mai stata separabile dallo sviluppo. Il diritto allo sviluppo non è un’idea astratta: è una battaglia storica combattuta dai paesi del Sud Globale fin dalla Conferenza di Bandung, nel 1955. È lì che le nazioni che uscivano dal colonialismo hanno ribaltato il paradigma: sviluppo non significa solo PIL, significa diritti, significa equità, significa autodeterminazione. Nel 1986, la Dichiarazione sul Diritto allo Sviluppo delle Nazioni Unite sancisce che la sicurezza di un popolo non si misura dalla quantità di armi che possiede, ma dal grado di realizzazione dei diritti economici, sociali e politici. Libertà dalla paura, certo. Ma anche libertà dal bisogno. Perché cos’è la sicurezza se non avere accesso al cibo, all’acqua, alla salute, a un tetto?

Negli anni ‘90, l’ONU prova a formalizzare questa visione con il concetto di Human Security. Ma la storia prende una piega diversa. Dopo la fine della Guerra Fredda, il mondo avrebbe potuto prendere una direzione diversa. La NATO non aveva più motivo di esistere, eppure non solo resta in piedi, ma si espande, ridefinisce il proprio ruolo, si arroga il diritto di intervenire ovunque. Nel 1999, con il nuovo Concetto Strategico, la NATO fa un salto di qualità: la sicurezza non è più solo difesa territoriale, ma un mandato globale. In altre parole: l’Occidente si autoconferisce il diritto di decidere dove e quando intervenire.

Ma serviva una giustificazione. E allora, il concetto di Human Security, nato per garantire diritti e stabilità, viene distorto. Diventa il pretesto perfetto per le guerre umanitarie: Kosovo, Afghanistan, Iraq, Libia. La protezione dei civili diventa la scusa per bombardare gli Stati considerati “problematici”. E poi arriva la Responsibility to Protect (R2P), che dovrebbe prevenire genocidi e crimini contro l’umanità, ma in realtà viene usata per giustificare interventi militari selettivi. Si dice: la sovranità non è più un diritto assoluto. Ma chi decide quando uno Stato ha fallito? Chi stabilisce chi deve essere “protetto” e da chi? La risposta è ovvia: sempre gli stessi.

Il punto di svolta arriva nel 2022 con il Concetto Strategico della NATO: tutto è una minaccia. Il cyberspazio, la finanza, l’energia, persino le narrazioni. La sicurezza viene trasformata in una macchina di guerra onnipresente, in cui ogni ambito della vita diventa un campo di battaglia. E mentre gli USA e la NATO militarizzano tutto, l’Unione Europea sceglie la stessa strada: 800 miliardi per il Rearm Europe, meno welfare, meno servizi pubblici, più soldi alle industrie belliche.

Ma c’è un’alternativa. E questa alternativa ha un nome: Global Security Initiative. È il modello proposto dalla Cina nel 2023, che si inserisce in una tradizione completamente diversa: la sicurezza non si impone con la forza, si costruisce attraverso lo sviluppo. Il Congresso del PCC ha fissato delle priorità chiare: investire nella sovranità tecnologica, ridurre le disuguaglianze interne, espandere le infrastrutture strategiche. L’obiettivo è chiaro: creare sicurezza attraverso la cooperazione economica e politica, non attraverso le guerre. Un modello che rispetta la sovranità nazionale, che mette al centro il dialogo invece dell’imposizione.

A questo punto, la contrapposizione è evidente. L’Occidente crea sicurezza distruggendo, attraverso guerre, sanzioni, ingerenze. La Cina crea sicurezza costruendo, con investimenti, sviluppo, stabilità. E qui sta il vero nodo della competizione globale. Perché il modello cinese mette in crisi la narrativa occidentale. Dimostra che la sicurezza non è un privilegio di pochi, ma qualcosa che si può costruire collettivamente. Ed è per questo che l’Occidente è nel panico. Perché se il Sud Globale comincia a vedere una vera alternativa, se capisce che può sfuggire al ricatto della sicurezza militarizzata, allora il dominio occidentale si sgretola.

Siamo a un bivio. Da una parte, c’è la strada della NATO, dell’UE e degli Stati Uniti: un mondo in cui la sicurezza è un’esclusiva, un privilegio blindato da armi, eserciti e minacce. Un mondo dove chi non si allinea è un nemico da annientare. È la strada che ha portato alla guerra in Ucraina, alle sanzioni che affamano interi popoli, alle basi militari che circondano il globo. È la strada che trasforma ogni crisi in un’opportunità per fare profitti, che usa la paura per giustificare l’ingiustizia.

Dall’altra parte, c’è la strada della cooperazione, della sicurezza come sviluppo, come equilibrio tra gli attori globali. È la strada della Global Security Initiative, dell’integrazione economica, del rifiuto della logica di guerra infinita. È la strada che la Cina sta proponendo, non come un modello perfetto, ma come un’alternativa concreta a decenni di dominio occidentale. Un’alternativa che parla di infrastrutture, di tecnologia, di riduzione delle disuguaglianze. Un’alternativa che, pur con tutti i suoi limiti, dimostra che un altro mondo è possibile.

Ma qui arriva il punto cruciale: la sicurezza non è un dato di fatto, è una scelta politica. È una scelta tra chi vuole un mondo diviso tra chi comanda e chi obbedisce, e chi vuole un mondo in cui la sicurezza sia un diritto universale. È una scelta tra chi usa la paura per controllare e chi usa la solidarietà per costruire. E questa scelta non la fanno solo i governi o le istituzioni internazionali. La fanno anche i movimenti sociali, i sindacati, le comunità che lottano ogni giorno per i propri diritti. La fanno i lavoratori che scioperano contro l’austerità, i giovani che manifestano per il clima, i popoli che resistono all’imperialismo. Perché la vera sicurezza non viene dai missili, ma dalla lotta collettiva.

Il futuro della sicurezza globale non è scritto nei trattati militari o nei summit dei potenti. È scritto nelle strade, nelle piazze, nei luoghi di lavoro. È scritto nelle scelte che facciamo ogni giorno: se stare dalla parte di chi bombarda o di chi costruisce, se accettare passivamente l’ordine esistente o lottare per un mondo migliore. E allora, la domanda non è solo quale modello prevarrà. La domanda è: da che parte vogliamo stare? Vogliamo continuare a vivere in un mondo dove la sicurezza è un privilegio per pochi e un’arma contro i molti? O vogliamo lottare per un mondo dove la sicurezza sia un diritto per tutti, dove la pace non sia un lusso ma una realtà?

Perché la sicurezza, nel senso vero della parola, non è avere un esercito più forte o un muro più alto. È avere accesso al cibo, all’acqua, alla salute, a un tetto. È vivere senza paura, senza ricatti, senza ingerenze. È poter costruire un futuro per sé e per i propri figli. E questo non è un privilegio da concedere, è un diritto da conquistare. Il mondo può scegliere di restare in mano a chi ha trasformato la sicurezza in un’arma. Oppure può scegliere un’altra via. Una via che non è scritta nei missili, ma nel progresso. Una via che non divide il mondo tra chi comanda e chi obbedisce.

 Una via che, per la prima volta, potrebbe rendere la sicurezza davvero universale.

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